Non scorderò mai il momento in cui ci siamo staccati dalla riva fangosa del Rio Exploradores.
Era fine marzo e diluviava da giorni, il fiume era in piena e ribolliva limaccioso tra le rive coperte da una foresta impenetrabile. La corrente ci aveva immediatamente catapultati verso l’Oceano Pacifico: i nostri kayak erano stracarichi di equipaggiamento e viveri per due settimane di completa autonomia.
Cosa ci aspettava non lo potevamo immaginare nonostante avessimo studiato minuziosamente le immagini satellitari dei fiordi dietro la calotta ghiacciata dello Hielo Continental Norte.
Per il momento potevamo solo vivere intensamente il presente e cavalcare le enormi onde cercando di evitare i gorghi più grossi e gli alberi trasportati dalla corrente.
Con il mio amico Silvano siamo nel cuore della Patagonia cilena per curiosare in uno dei suoi angoli più selvaggi. Assieme abbiamo salito mille montagne ma questa volta vogliamo metterci in gioco con un mezzo di trasporto che ci ha sempre affascinato: il kayak, usato da millenni dagli Inuit della Groenlandia ancora oggi rimasto sorprendentemente lo stesso. I nostri pesano solo 15 kg e hanno uno scheletro in alluminio e una pelle di plastica, in questo modo sono smontabili per il trasporto.
Behind the Hielo - Patagonia kayak expedition from Ruggero Arena on Vimeo.
La corrente ci fa macinare velocemente parecchi chilometri fin quando troviamo, verso la foce del fiume, un luogo adatto per sbarcare e accamparci. La foresta intorno è un muro verde grondante d’acqua. Continua a diluviare. Siamo in una delle zone più piovose del pianeta.
Usciti dall’estuario del Rio Exploradores costeggiamo verso sud un lungo fiordo. Le montagne precipitano verticali fino in mare. Ci rendiamo conto molto presto che non c’è posto per noi. Riusciamo a scendere dai kayak per brevi pause sugli scogli solamente durante la bassa marea. Trovare un posto per la tenda è davvero difficile. Spesso durante la notte l’acqua sale e arriva a lambire il nostro rifugio: dormiamo nelle tute stagne sempre pronti a ripartire.
Dopo alcuni giorni entriamo nella laguna San Rafael. Alla nostra sinistra un gigantesco ghiacciaio sprofonda in acqua liberando innumerevoli iceberg. Alcuni hanno strane forme di draghi, altri, di antichissimo ghiaccio, sono così trasparenti da sembrare di cristallo, altri ancora sono di una tonalità di azzurro mai visto prima. Navighiamo tra scintillanti sculture galleggianti, ci muoviamo estasiati in silenzio e rapiti dal magnetismo del ghiaccio.
La laguna è delimitata a sud dall’Istmo di Ofqui, una striscia di terra paludosa che impedisce la navigazione tra i fiordi del norde quelli del sud della Patagonia. Per gli indios che vivevano in queste regioni non era un ostacolo, poiché anche loro si spostavano con canoe relativamente leggere. Negli anni ‘50 il governo cileno decise di tagliare l’Istmo con un canale: il progetto naufragò presto in quelle acque remote ma ancora oggi resta il segno dello scavo, in realtà più simile a un fosso melmoso che a un canale navigabile.
Come gli indios, anche noi trasciniamo i kayak con il fango fino alle ginocchia, aprendoci un varco nella vegetazione sotto un cielo grigio piombo.
Sono solo una manciata di chilometri di “portage” eppure, quando raggiungiamo il nuovo corso d’acqua, sembriamo usciti da una lotta estenuante. Il Rio Negro onora il suo nome: rimettiamo in acqua i kayak su un letto d’inchiostro. È piacevole però, il fiume scorre lento e noi abbiamo tutto il tempo di goderci il paesaggio. La nostra attenzione è catalizzata oltre le paludi scure verso oriente, da una formidabile barriera di montagne ghiacciate. Sono le cime selvagge dello Hielo Continental Norte.
Ormai il vento ci porta l’odore dell’Oceano. C’è una calma soprannaturale quando approdiamo su una spiaggia immensa, davanti al Golfo de Penas. Grandi ondate battono la spiaggia scura con un ritmo lento e sommesso. Il tempo rimane sospeso tra un’onda e l’altra mentre l’intera regione ci sembra il residuo di una preistoria sacra, priva della complicazione umana.
Siamo soli naturalmente, euforici per la bellezza inesprimibile nella quale ci sentiamo immersi.
Ci sediamo su una duna con l’Oceano Pacifico di fronte e improvvisamente ci scopriamo stanchissimi, sfiniti di remare da giorni per ore e ore, stufi di mangiare liofilizzati e di essere sempre bagnati. Quella sera, nella tendina, osservando il nostro percorso sulle immagini satellitari, decidiamo che è il momento di girare la prua verso nord.
Risalire il Rio senza l’aiuto della marea si rivela un incubo, condito da una improvvisa tempesta di grandine: piomba su di noi come uno schiaffo di acqua e ghiaccio che ci costringe ad aggrapparci alla riva. È così violento che non riusciamo neppure a parlarci, ognuno resta chiuso nella tuta stagna, nei suoi pensieri, rannicchiato nel kayak. Il ritorno è psicologicamente più difficile, manca la motivazione che ti spinge verso l’obiettivo. Procediamo troppo lentamente e così siamo costretti a passare una notte nella palude. Con la tenda montata su un’isoletta galleggiante tra il pantano e le nebbie notturne crolliamo in un sonno profondo.
Il cielo impallidisce nel giorno mentre resto in piedi fuori dalla tenda distratto da un sogno che ho dimenticato. Passa sfrecciando un colibrì mentre osservo gli svassi scivolare nell’acqua che sembra metallo fuso. È ora anche per noi di riprendere la nostra strada liquida. Mentre pagaiamo nella nebbia, Silvano canta canzoni di montagna, forse per farci sentire meno isolati dal mondo.
Attraversiamo nuovamente la Laguna San Rafael. Questa volta la costeggiamo lungo il suo margine orientale, passando proprio davanti al ghiacciaio. Pur navigando a debita distanza siamo molto preoccupati.
Remiamo con estrema cautela, cercando guardinghi il passaggio migliore tra galassie di blocchi di ghiaccio: è un concerto di scricchiolii e di boati. Ogni volta che si stacca un pezzo più grande dal fronte del ghiacciaio, un tuono scuote l’aria mentre un’onda solitaria ed enorme si propaga velocemente per tutta la laguna, colpendo la costa e i ghiacci galleggianti.
Poi torna la calma, rotta solo dal passaggio allegro di una formazione di starnazzanti cigni dal collo nero.
Anche oggi piove, anzi diluvia, come al solito. Carichiamo i kayak per l’ultima giornata di navigazione. Le braccia si muovono per inerzia, la pancia è vuota, le barbe sono più lunghe. Possibile che la corrente sia sempre contraria? Stiamo davvero avanzando o la corrente ci trascina indietro? Nei viaggi sull’acqua abbiamo imparato che il movimento, la direzione, i tempi di uno spostamento appartengono ad una dimensione meno certa di quella alla quale siamo abituati sulla terraferma.
Forse la Laguna non vuole lasciarci andare. Confesso che ancora oggi mi chiama e chissà, magari un giorno vorrò nuovamente ascoltarla.
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